Sonno REM ritardato e malattia di
Alzheimer
GIOVANNI
ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XXII – 01 febbraio
2025.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il
cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Nella malattia di Alzheimer si sono rilevate alterazioni della quantità e
qualità del sonno e, nella maggior parte dei casi, sono state studiate le
peculiarità dello stadio NREM, con particolare riferimento al periodo ad onde
lente SW (slow waves), considerato in
neurologia la fase più profonda dello stato cerebrale che si alterna alla
veglia. In molti di questi studi, il rapporto tra neurodegenerazione e
alterazioni del sonno è definito mediante l’uso convenzionale del concetto
epidemiologico di “aumentato rischio”, ma si dovrebbero più propriamente impiegare
espressioni di questo tipo: “il reperimento di questo fattore, parametro o biomarker
aumenta la probabilità che la persona sia affetta da malattia di
Alzheimer”. Riteniamo che non sia
superflua questa precisazione, in quanto il rapporto tra alcune alterazioni e
la patologia neurodegenerativa in genere non è di causa-effetto, ossia non sono
fattori che fanno aumentare il rischio eziologico di sviluppare la malattia, ma
sono piuttosto un segno di un processo patogenetico in atto o di una
fisiopatologia. In altri termini, non sono i disturbi del sonno che causano la malattia
di Alzheimer e, se il loro perdurare o peggiorare aggrava la sintomatologia, sarebbe
opportuno di volta in volta precisare con quale ruolo e, possibilmente, con
quale meccanismo.
Nella ricerca che indaga il sonno nella demenza neurodegenerativa, si dà
per implicita la speranza che la definizione di uno stretto rapporto tra un
parametro EEGrafico e il processo patologico possa rappresentare un segno
specifico e sensibile, al punto da essere adottato come biomarker per la
diagnosi precoce.
Come si è già detto, la maggior parte degli studi ha indagato ipotetiche
alterazioni del sonno a onde lente, ma è noto che l’avanzare dell’età comporta
una fase di latenza più lunga della media prima dell’inizio della fase REM, e
dunque si sta esplorando la possibilità che la neuropatologia degenerativa
possa causare effetti sui tempi dello stadio caratterizzato da rapidi movimenti
degli occhi. Jiangli Jin e colleghi hanno deciso
di indagare il rapporto tra sonno REM e indici di neurodegenerazione
alzheimeriana.
I ricercatori
hanno dimostrato che il sonno SW non era associato alla malattia di Alzheimer e
alle altre demenze clinicamente correlate, mentre una più lunga latenza
prima dell’inizio della fase REM era caratteristicamente presente in
questi casi. I pazienti con stadio REM ritardato avevano il 16% in più di
β-amiloide e il 29% in più di tau fosforilata alla treonina 181, due
importanti elementi distintivi del processo neurodegenerativo alzheimeriano;
soffrivano di difetto del consolidamento mnemonico e presentavano basso BDNF e
alti livelli di molecole dello stress.
(Jin
J. et al., Association of rapid eye movement sleep latency with
multimodal biomarkers of Alzheimer’s disease. Alzheimer’s & Dementia – Epub ahead of print doi: 10.1002/alz.14495, 27 January 2025).
La provenienza degli autori
è la seguente: Institute of Medical Technology,
Pecking University of Health Science (Cina); Clinical Trial Research Center,
China-Japan Friendship Hospital, Beijing (Cina); Department of Psychiatry and
Behavioral Sciences, University of California, San Francisco, California (USA);
Department of Neurology, University of California, San Francisco, California
(USA); Department of Neurology and Neurological Sciences, Stanford University
School of Medicine, Palo Alto, California (USA); Barcelonaβeta Brain Research Center (BBRC) Pasqual Maragall
Foundation, Barcelona (Spagna); Department of Neurology, Washington University
School of Medicine, St Louis, Missouri (USA); Department of Neurology, The
Second Hospital of Tianjin Medical University, Tianjin (Cina); Department of
Neurology, China-Japan Friendship Hospital, Beijing (Cina).
Come abbiamo fatto altre volte dal 2023[1] e nel
2024[2],
cogliamo l’occasione di questa recensione per introdurre il lettore non
specialista alla malattia di Alzheimer e proporre alcuni importanti risultati
della ricerca su questa patologia neurodegenerativa, attingendo prevalentemente
a un nostro articolo del 2022, che trae da altri precedenti[3]-[4].
Si riporta lo storico brano di Alois Alzheimer che
descrive clinicamente lo stato della paziente Auguste Deter: “Una donna di 51 anni ha mostrato
gelosia verso suo marito come primo segno rilevante della malattia. Presto si è
potuta notare una perdita di memoria rapidamente ingravescente. Non era in
grado di orientarsi nel suo appartamento. Portava oggetti avanti e indietro e
li nascondeva. A volte pensava che qualcuno volesse ucciderla e cominciava ad
urlare”[5]. Ricordiamo che Alzheimer con queste parole
introdusse il caso paradigmatico di una donna ammalata di demenza presenile con
sintomi psicotici, che morì nel giro di pochi anni: nei casi familiari della
malattia la prognosi è ancora la stessa.
Nel
1906 il neuropatologo tedesco Alois Alzheimer studia al microscopio preparati
istologici ricavati da sezioni sottili del cervello di una sua paziente affetta
da una complessa e invalidante malattia neuropsichica, caratterizzata da una
grave forma di deterioramento mentale ad insorgenza precoce ed andamento
rapidamente ingravescente. Descrive due tipi di lesioni che ricollegherà
all’eziopatogenesi della malattia: le placche e le alterazioni neurofibrillari.
La pubblicazione di questi dati, nel 1907, avvierà la ricerca su quale sia il primum movens patogenetico, le placche
amiloidi o la degenerazione neurofibrillare[6].
All’originario
lavoro di Alzheimer, Perusini aggiunse nel 1909 tre nuove osservazioni anatomo-cliniche
molto dettagliate[7] e i suoi studi negli anni
successivi (1910-1911) consentirono la comprensione di alcuni rilevanti aspetti
clinici e patologici, così che la malattia detta in Germania “morbo di
Alzheimer”, divenne nota in Italia come “morbo di Alzheimer-Perusini”. Il
grande nosografista Kraepelin la ritenne una forma grave e precoce di demenza
senile, secondo il concetto di senilità precoce di Fuller, anche se già nel
1910 le riconosceva autonomia nosografica costituendo la nuova categoria
diagnostica della malattia di Alzheimer[8].
Anche
se l’identificazione di questa nuova malattia da parte di Alois Alzheimer destò
l’interesse di neurologi e ricercatori dell’epoca, per molto tempo fu vista
solo come una curiosità medica perché rarissimamente diagnosticata. Per
decenni, le ipotesi sulla sua eziologia e le opinioni sulle caratteristiche
della patologia e della clinica hanno ispirato filoni di ricerca ed acceso
dibattiti, senza però migliorare la conoscenza e la comprensione dei processi
alla base di questa grave ed inesorabile perdita delle funzioni mentali e più
in generale cerebrali, che termina con esito infausto.
“Si
può dire che il primo reale progresso fu compiuto nel 1984, quando George G. Glenner dell’Università della California a San Diego riuscì
ad isolare dal materiale amiloide delle placche un corto peptide, costituito da
40 o 42 aminoacidi, cui si diede il nome di peptide β-amiloide (Aβ).
Poco
tempo dopo quattro diversi gruppi di ricerca sequenziarono il gene che codifica
la proteina da cui il peptide origina. Così come erano parse sorprendenti le
piccole dimensioni del peptide in grado di formare fibrille e accumuli di
sostanza extracellulare, sorpresero le grandi dimensioni della proteina
codificata dal gene di recente individuato. Il peptide beta-amiloide era un
frammento di una macromolecola di membrana cui si diede il nome di precursore
del peptide beta amiloide o beta-amyloid
precursor protein o βAPP. […]
Nel
1991, studiando il DNA di una famiglia con Alzheimer ad insorgenza precoce, un
gruppo della St. Mary’s Hospital Medical
School di Londra localizzò il gene per la βAPP sul cromosoma 21 e dimostrò
che la mutazione puntiforme si verificava proprio nel frammento di DNA
codificante il polipeptide precursore. All’incirca in quello stesso periodo
altri studi indicavano che in famiglie in cui ricorreva la malattia di
Alzheimer il cromosoma 21 poteva essere portatore di un difetto. Questa
correlazione era molto suggestiva perché da tempo era noto che i soggetti
affetti da sindrome di Down o trisomia 21, quando vivono sufficientemente a
lungo, invariabilmente sviluppano i sintomi di una patologia simile
all’Alzheimer.
L’idea
che il peptide Aβ fosse all’origine della cascata di eventi determinante
la progressione della malattia era ormai opinione dominante, nota come “teoria
dell’amiloide”, e i dati genetici sembravano confermarla in pieno. Ben presto
si formò una vera e propria scuola di pensiero che ebbe, ed ha tuttora, in
Dennis Selkoe uno dei maggiori esponenti. […]
Nel
1992 Allen Roses sfidò l’ortodossia β-amiloide: annunciò di aver
identificato un gene di suscettibilità per lo sviluppo delle forme più
frequenti, ad insorgenza nell’età media e avanzata. Si trattava del gene per
l’allele “ε4” dell’apolipoproteina E (APOE), cioè una variante di una
lipoproteina che trasporta il colesterolo. […]
La
teoria dell’amiloide sembrò avere una conferma decisiva nel 1995 quando Peter
H. St George Hyslop, con i suoi collaboratori, clonò due geni cui diede il nome
di presenilina 1 e presenilina 2. Le alterazioni di questi
geni erano state messe in relazione con una forma della malattia estremamente
aggressiva e ad insorgenza molto precoce, in cui la sintomatologia talvolta
esordiva già intorno ai 28 anni, divenendo presto molto grave. […]
Nel
1998 Rudolph Tanzi, genetista di Harvard, ritenne di aver identificato sul
cromosoma 12, in un gene detto A2M, un altro importante fattore di suscettibilità:
la sua tesi era che questo gene fosse in grado di determinare il tasso di
produzione di β-amiloide da parte dei neuroni. L’ipotesi fu respinta, non
solo da coloro che dubitavano del valore della ricerca sui geni di
suscettibilità, ma dallo stesso Allen Roses, il quale aveva lavorato a quel
locus del cromosoma 12, addirittura registrando un brevetto sull’A2M e,
successivamente, si era convinto della mancanza di un legame diretto con la
patologia. […]
Il
precursore della proteina β-amiloide (βAPP) è sintetizzato da molte
specie cellulari ed è una proteina di membrana, la cui lunghezza varia da 695 a
770 aminoacidi. Le due estremità idrofile della macromolecola sporgono l’una
nel citoplasma e l’altra, la più lunga, nello spazio extracellulare. Da
quest’ultima proviene il peptide beta-amiloide.
La
funzione fisiologica non è nota[9] ma si sa che va incontro ad un
processo di scissione enzimatica secondo due diverse modalità. […]
La
prima modalità prevede una tappa
catalizzata da un enzima detto α-secretasi,
in grado di scindere dal precursore un peptide che sarà attaccato da un secondo
enzima, la γ-secretasi, la cui
azione dà origine ad un frammento fisiologico, definito p3.
Questa
modalità, ossia la scissione mediante
α-secretasi/γ-secretasi, dà sempre luogo ad un peptide non
patogeno.
La
seconda modalità differisce per
l’enzima che interviene nella prima tappa, in questo caso è la β-secretasi: uno dei frammenti
prodotti, costituito da 99 aminoacidi, il C99-βAPP, sottoposto all’azione
della γ-secretasi dà luogo alla formazione del peptide β-amiloide[10]. La successione
beta-secretasi/gamma secretasi genera per il 90% molecole di 40 aminoacidi e,
per la parte rimanente, peptidi di 42 aminoacidi. Solo questa piccola frazione
sembra in grado di innescare la successione di eventi che determina la
formazione delle placche”[11].
Queste
nozioni costituiscono ormai una base consolidata delle conoscenze patologiche
sul gravissimo e ancora inguaribile processo neurodegenerativo. Riportiamo ora,
qui di seguito, elementi di più recente acquisizione tratti dall’introduzione a
uno studio presentato tre anni fa[12].
La malattia di Alzheimer, la
più comune[13] e grave demenza neurodegenerativa, costituisce una categoria nosografica
definita in base ad elementi patogenetici e clinici comuni, ma in realtà
costituita da forme diverse per eziologia, che può essere esclusivamente
genetica (forme familiari) o multifattoriale e prevalentemente indeterminata
(forme sporadiche); per esordio, che può essere precoce, presenile[14], nell’età media della vita oppure in età senile o più spesso nella tarda
senilità; e per fisiopatologia: può presentare entrambi i contrassegni
istopatologici descritti da Alzheimer e Perusini, ossia placche amiloidi
neuritiche e grovigli neurofibrillari intraneuronici,
oppure uno solo dei due, presentandosi come tipo con placche soltanto (plaque only type) o come taupatia senza placche evidenti
associata a demenza[15].
La maggior parte dei ricercatori che
ritiene irrilevante la differenza causale di fronte ad una patogenesi pressoché
identica in tutte le forme suppone che, nella sequenza di eventi patogenetici,
si possa identificare una tappa da bloccare per ottenere l’arresto della
progressione in tutti i casi; fra coloro che considerano rilevante il primum
movens etiologico, vi sono ricercatori che attribuiscono al rapporto
biochimico fra evento causale e innesco della patogenesi un valore di
conoscenza chiave per giungere a trattamenti (ed eventuali programmi di
prevenzione) specifici per le singole forme.
In ogni caso, lo studio della
genetica è importante perché, anche se le forme eredo-familiari costituiscono
una esigua minoranza, anche in quelle ad eziologia ignota si suppone un ruolo
non irrilevante del genotipo per lo sviluppo della malattia. Inoltre, la ricerca
condotta soprattutto negli ultimi decenni sulle cause genetiche delle anomalie
molecolari riscontrate, pur non essendo stata ancora decisiva per la
comprensione dell’origine della maggioranza dei casi, ha fornito dati e nozioni
di notevole interesse. Un esempio è l’identificazione da parte di St.
George-Hyslop e colleghi, in pazienti affetti da forme ereditarie della
malattia, di geni codificanti versioni alterate della APP (amyloid precursor
protein) localizzati sul cromosoma 21 accanto al
gene βA. Questa scoperta ha fornito una spiegazione per le alterazioni
alzheimeriane – in passato interpretate come invecchiamento precoce – che si
rilevano nel cervello di tutti gli affetti da sindrome di Down o trisomia 21
che vivano oltre i 28 anni: avendo tre copie del cromosoma 21, producono
amiloide in eccesso.
Anche se la scoperta ha consentito
di spiegare quel dato patologico interpretato come segno di invecchiamento
precocissimo del cervello nella sindrome di Down, rende conto della probabile
causa solo di una piccolissima frazione di casi eredo-familiari di malattia di
Alzheimer che, a loro volta, costituiscono una piccola parte del totale. In
altre stirpi familiari studiate per la presenza di casi ad ogni generazione,
ereditati verosimilmente come un carattere mendeliano autosomico dominante,
sono state identificate rare mutazioni nel gene della presenilina 1
(localizzato sul cromosoma 14) responsabili in alcuni studi fino al 50% dei
casi familiari, e della presenilina 2 (localizzato sul cromosoma 1) responsabile
di una quota degli altri casi ereditari[16].
La presenza di amiloide aberrante da
sola non è in grado nel resto della popolazione di causare la malattia
neurodegenerativa, così si sono studiati i geni associati quali fattori di
rischio. Il primo ad essere scoperto fu “Apo E”[17], un regolatore del metabolismo lipidico che ha un’affinità per la
β-amiloide delle placche neuritiche della malattia di Alzheimer e si è
rivelato in grado di modificare il rischio di acquisire la malattia di
Alzheimer. In particolare, fra le varie isoforme della lipoproteina, la
presenza di E4 e del suo corrispondente allele ε4 sul cromosoma 19 è associata ad una
probabilità tripla di sviluppare la malattia. Il possesso di due alleli ε4
sembra dare certezza della malattia a coloro che superano gli ottanta anni.
L’allele ε4 modifica anche l’età di esordio di alcune delle forme
familiari della malattia. Vari studi hanno dimostrato che, all’opposto,
l’allele ε2 è poco rappresentato nelle persone affette da malattia di
Alzheimer.
Anche se
decisamente più raro delle varianti di Apo E, un polimorfismo in TREM2
conferisce uguale probabilità di sviluppare la malattia. Nelle forme
sporadiche, questo polimorfismo è responsabile di un difetto di fagocitosi
dell’amiloide che avviene nel normale ciclo fisiologico, contribuendo
all’accumulo. Altri meccanismi ipotizzati per la partecipazione delle varianti
di questo gene alla patogenesi non hanno ancora ricevuto conferma sperimentale.
Un’altra
variazione genica, implicata sicuramente in forme familiari della malattia di
Alzheimer, è stata registrata presso il sito dell’ubiquilina
1, cioè UBQLN1 codificante una proteina che interagisce con PS1 e PS2,
oltre a partecipare alla degradazione proteasomica.
L’importanza
dello studio della genetica si può desumere dagli importanti elementi di
conoscenza che sono stati ottenuti dall’analisi di interi alberi genealogici di
pazienti affetti dalla demenza neurodegenerativa.
Nei cenni storici sulle origini di
questa patologia si cita sempre il caso di Auguste Deter, la paziente che morì
a soli 55 anni e dal cui cervello Alois Alzheimer prelevò i campioni sui quali
scoprì placche amiloidi e ammassi neurofibrillari, ma non si riporta di un
secondo caso, pubblicato dal neurologo tedesco col nome di Johann F. e caratterizzato
dall’assenza di degenerazione neurofibrillare, cioè il primo paziente affetto
dal plaque only type[18]. Nel suo cervello, oltre ai segni generici di encefalopatia atrofica, si
rilevavano solo gli accumuli macroscopici di amiloide extracellulare, denominati
da Alzheimer placche senili, secondo la terminologia anatomopatologica
dell’epoca. La ricorrenza della malattia nella famiglia di Johann aveva indotto
a supporre già a quell’epoca una causa genetica. In questo secolo, quando i
ricercatori impegnati nella ricerca del primum movens causale della
malattia si dividevano in due fazioni, la prima sostenitrice della “teoria
della β-amiloide” con capofila Dennis Selkoe e la seconda sostenitrice
della “teoria della tau”, rappresentata dalla scuola di Rudolf Tanzi, si decise
di andare alla ricerca dei discendenti di Johann per verificare se fra loro vi
fossero ammalati di demenza neurodegenerativa e studiarne esaustivamente il
profilo biomolecolare.
In estrema sintesi, i sostenitori
della “teoria della β-amiloide” ritenevano che i peptidi βA
amiloidogenici, ossia quelli generati dalla scissione della
γ-secretasi con una lunghezza uguale o superiore a 42 aminoacidi,
innescassero tutte le catene di eventi culminanti in degenerazione, apoptosi e
necrosi; i sostenitori della “teoria della tau” ritenevano che
l’iperfosforilazione della proteina associata ai microtubuli tau fosse
responsabile della sequenza di eventi che porta a morte i neuroni e
consideravano le placche amiloidi delle semplici “pietre tombali” formate nelle
sedi di distruzione del tessuto nervoso. Per i sostenitori di questa seconda
tesi, i casi come quello di Johann, in cui vi erano solo placche senza ammassi
neurofibrillari, erano dovuti a una causa da scoprire, ma sempre
intraneuronica.
Klunemann e colleghi afferenti alla Clinica Psichiatrica dell’Università di
Regensburg (Germania) riuscirono a rintracciare i discendenti del secondo
paziente di Alzheimer, ne studiarono il profilo genetico secondo le
acquisizioni più recenti di quegli anni, ricostruirono l’albero genealogico e
poi chiesero l’aiuto di St. George-Hyslop[19]. I ricercatori fecero un lavoro straordinario: grazie a numerose tracce
documentali reperite con l’aiuto delle famiglie dei pazienti, riuscirono a
risalire lungo la linea degli antenati fino al 1670, ed elaborarono un fedele
albero delle parentele che al 2007 contava 1403 discendenti. I quattro
discendenti affetti da demenza all’epoca dello studio, la avevano ereditata
come un carattere mendeliano semplice autosomico dominante. Klunemann, St. George-Hyslop e colleghi testarono i “geni
di rischio dominanti” allora noti, ossia APP, PS1, PS2, PRNP e BRI, senza riuscire
a trovare un allele già identificato come patologico[20]. Anche se questo studio non identificò la causa genetica dell’Alzheimer di
quella stirpe, contribuì alla demolizione della dicotomia β-amiloide/tau.
Infatti, se il primum movens sono i peptidi βA, in grado di
innescare reazioni che portano nei neuroni all’iperfosforilazione della tau con
conseguente degenerazione fibrillare seguita da distruzione degli assoni e poi
del corpo cellulare neuronico, come e perché avviene la distruzione neuronica
con gli stessi esiti clinici senza la distruzione della tau? La conclusione
ipotetica della nostra scuola neuroscientifica è che ci si trova di fronte a
patologie diverse che non differiscono solo nell’innesco eziologico ma anche,
sia pure in parte, nella patogenesi.
Per dirimere
queste questioni sarà necessario scoprire i meccanismi molecolari che mediano
gli effetti dei molteplici fattori causali e, visto che le alterazioni
molecolari e i processi patologici finora esaminati si sono rivelati quanto
meno insufficienti ad orientare delle risposte, si è proceduto attraverso analisi
del trascrittoma, i cui risultati hanno suggerito nuovi progetti di ricerca[21].
Torniamo ora
al lavoro qui recensito sull’identificazione della latenza del sonno REM quale
contrassegno elettrofunzionale di fisiopatologia e potenzialmente patogenesi
neurodegenerativa alzheimeriana.
Jiangli Jin e colleghi hanno
elaborato il loro progetto di ricerca a partire dalla nozione che i disturbi
del sonno sono associati alla malattia di Alzheimer e alla categoria
nosografica ADRD (Alzheimer’s Disease and Related Dementias), ma la relazione tra l’architettura
funzionale del sonno – in particolare la fase REM – e i biomarker di
queste patologie non è stata ancora chiarita. Per esplorare la possibilità che una
prolungata latenza prima dell’inizio dei rapidi movimenti oculari sia associata
al processo neurodegenerativo, i ricercatori hanno reclutato un campione di 128
volontari (56.9% donne), così ripartiti: 64 affetti da malattia di Alzheimer,
41 diagnosticati di MCI (mild cognitive impairment) e 23 con cognizione
normale, fungenti da gruppo di controllo; l’età media era di 70.8 ± 9.6.
Tutti i
partecipanti sono stati sottoposti a polisonnografia (PSG) durante una notte
intera, tomografia ad emissione di positroni (PET) per la misura della
β-amiloide (βA) e analisi di biomarker plasmatici, quali tau
fosforilata alla treonina 181 (p-tau 181), neurofilamenti leggeri (NfL) e fattore neurotrofico derivato dal cervello (BDNF)[22].
È risultato
evidente che una maggiore latenza REM, ossia un maggiore ritardo di comparsa,
era associato a più alti livelli di βA e di p-tau 181, come a livelli più
bassi di BDNF. Dunque, gli autori dello studio propongono la latenza prolungata
della fase REM quale nuovo fattore di rischio per la patogenesi della malattia
di Alzheimer e delle altre forme ADRD.
La comparsa
ritardata del sonno REM, oltre ad essere associata ai biomarker
plasmatici, ha rivelato uno stretto rapporto con la compromissione del
consolidamento mnemonico.
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e
invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del
sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni Rossi
BM&L-01 febbraio 2025
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registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in
data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione
scientifica e culturale non-profit.
[1] Note e Notizie 17-06-23 Scoperto nella malattia di Alzheimer uno stato
protettivo della microglia; Note e Notizie 24-06-23 Scoperte popolazioni cellulari associate alla malattia
di Alzheimer.
[2] Note e Notizie 16-11-24 Cambi trascrittomici astrocitari nella malattia di
Alzheimer; Note e Notizie 07-12-24 Come prevenire il deficit cognitivo nella malattia di
Alzheimer.
[3] Note e Notizie 25-06-22 La malattia di Alzheimer potrà essere trattata con
ERp57. Per lo studio su ERp57 si rinvia
alla lettura di questa nota, perché in questo testo non è stata ripresa la
recensione dello studio di Di Risola e colleghi del
giugno 2022.
[4] V. anche: Note e Notizie 07-10-22
Atlante a singola cellula rivela
dati per cognizione e Alzheimer.
[5] Note e Notizie 17-03-07 I
discendenti di Johann, paziente di Alzheimer. Dopo il caso celeberrimo di
Auguste D., Alzheimer pubblicò un secondo caso, quello di Johann F. in cui era
assente la degenerazione neurofibrillare (plaque
only type); si veda la
nostra interessante recensione dello studio dei discendenti affetti da questa
forma ereditaria di malattia di Alzheimer.
[6]
Alzheimer A., Ueber eigenartige
Erkrankung der Hirnrinden, Allg. Ztschr. Für Psychiat. 1907.
[7]
Perusini G., Ueber klinisch und histologisch eigenartige psychische Erkrankungen des spateren Lebensalters, Hist.
und Histopathol. Arb. Nissl. 3: 297, 1910.
[8]
Cfr. Kraepelin E., Lehrbuch der
Psychiatrie, Barth, Leipzig 1912.
[9] Numerosi studi hanno fornito nel
frattempo (il testo monografico è del 2004) evidenze che indicano ruoli fisiologici
della βAPP; di questi studi si trovano recensioni nelle “Note e Notizie”
di questi anni.
[10] Su questa base si impiegano in
terapia gli inibitori di BACE (Beta-secretase cleaving enzyme).
[11] Perrella G., op. cit., idem.
[12] Note e Notizie 28-11-20 Nella
malattia di Alzheimer deregolazione di geni e isoforme.
[13] La prevalenza di 10.800 su
100.000 fra gli ultra ottantenni è stima ricorrente in vari studi condotti in
tutto il mondo.
[14] In rare forme familiari sono
stati descritti casi con esordio in età giovanile. Nei criteri diagnostici si
considera un’età sempre superiore ai 40 anni.
[15] L’Adams e Victor’s, ossia
l’attuale gold standard in neurologia clinica, ribadendo che è superata
la distinzione fra demenza senile e malattia di Alzheimer (classificata in
passato come demenza presenile perché la prima paziente di Alois
Alzheimer aveva solo 51 anni all’esordio, e perché fino a qualche decennio fa
si diagnosticavano come malattia di Alzheimer solo i casi a insorgenza precoce)
propone di considerare related but separable le varie forme
eredofamiliari finora accertate e descritte (Adams e Victor’s Principles of
Neurology by Allan H. Ropper, Martin A. Samuels, Joshua Klein, 10th
edition, p. 1063, McGraw-Hill, New York 2014). Non
tutte le volte che si rileva un marcato declino cognitivo in età avanzata, con
punteggi dei test corrispondenti alle prestazioni dei pazienti affetti dalla
grave patologia neurodegenerativa, ci troviamo di fronte alla malattia di
Alzheimer: il trattamento cognitivo con CACR (sistema computerizzato ideato dai
coniugi Gianutsos con Luciano Lugeschi al Bellevue Hospital), nuove versioni o
sistemi equivalenti, determina miglioramento e talvolta totale recupero nei
casi non dovuti a neurodegenerazione alzheimeriana; presentazioni cliniche
indistinguibili da quella della malattia di Alzheimer possono presentare la
paralisi sopranucleare progressiva, la malattia a corpi di Lewy, la
degenerazione cortico-basale, la malattia di Pick (ossia la degenerazione
lobare fronto-temporale) e altre patologie neurodegenerative non alzheimeriane.
[16]
Bateman R. J., et al. Clinical and biomarker changes in dominantly inherited
Alzheimer disease. New
England Journal of Medicine
367: 367, 2012.
[17] Il massimo studioso di questo
fattore di rischio è stato Allen Roses, ai cui studi si rimanda per la
dettagliata documentazione del percorso di ricerca che ha condotto alle
conoscenze attuali sul ruolo di Apo E ε4.
[18] Costituisce uno specifico
sottogruppo nella classificazione internazionale più spesso adottata.
[19] Note e Notizie 17-03-07 I discendenti
di Johann paziente di Alzheimer.
[20] Cfr. Note e Notizie 17-03-07
I discendenti di Johann paziente di Alzheimer.
[21] Si veda Note e Notizie
24-04-21 Metaboliti noti con ruoli causali nella malattia di Alzheimer.
[22] I dati sono stati corretti per
lo status della APOE (ε4), per i parametri demografici, per cognizione e
comorbidità.